
Buonasera, un saluto cordiale e il mio personale ringraziamento nei confronti di chi ha consentito e di chi ha organizzato quest’evento e di tutti voi che siete intervenuti, a incominciare doverosamente dai Sindaci di Capri, dott. Paolo Falco e di Anacapri, Francesco Cerrotta. Un grazie doppio, perché non sto qui soltanto a presentare un libro, ma anche a ricordare un fratello, Enrico, e una persona carissima e straordinaria come Elio, che non ho conosciuto altrettanto profondamente, ma mi è stato sufficiente guardare, nella luce dei suoi occhi, l’amore che essi dicevano quando, insieme con Enrico, venivano a trovare nostra madre, prima della partenza di ciascuno dei loro viaggi di carità, a ricevere entrambi da lei la sua benedizione. All’uno e all’altro oggi con la vostra presenza siete venuti a rendere omaggio in quella che avrebbe dovuto essere una celebrazione esclusiva per lo straordinario caprese d’adozione che è stato Elio Sica, così caramente raccontato nel libro di Enrico (che per incidens di Capri era cittadino onorario). Ma poi anche quest’ultimo ci ha lasciato e allora stasera siamo qui a ricordarli entrambi e a rendere omaggio, ancora una volta a loro, insieme.
Proprio non riuscirei a celare la mia commozione, fatta di molti fili che s’annodano insieme: fili lunghi, molti vengono da lontano; altri più recenti. E allora, piuttosto che nasconderla, tanto vale raccontarla. Che sarà pure presentare il libro.
In verità, nel corso di questa settimana, anche lieta ma non leggera, intrisa di un piacere-doloroso e con un protratto renovare dolorem – in cui di “Elio”, pubblicato da Ares, ho fatto una terza lettura, dopo quella in fieri mano-mano che ne venivano scritti i capitoli e poi la seconda, del testo che inizialmente venne autopubblicato – sono andato a rispolverare ricordi, pensieri, documenti fatti di chat, e-mail, intercorse tra Enrico e me, particolarmente in quest’ultimo paio d’anni. M’è sembrato in certi momenti di sentirmi sopraffatto da tutto quello che si affollava dentro di me; e ho pensato anche di voler rinunciare ad essere qui. Ma non potevo sottrarmi. I perché sono molti: per i sentimenti di fratellanza e d’amicizia innanzitutto; per aver modo così di fare su questa meravigliosa scrittura delle riflessioni più sistematiche e condividerle con voi; perché, anche, a questo libro mi sento di aver prestato, lasciatemi dire così, assistenza ostetrica, avendolo accompagnato dalla procreazione alla nascita, dalla ideazione alla pubblicazione; e perché è stato lo stesso Enrico a volere che fossi io a presentarlo proprio qui, a Capri (luogo non soltanto per questo evento ma anche dentro al libro stesso, fisicamente e pure simbolicamente); e quando lui me lo chiese non pensai certo di dirgli di no, oltretutto Enrico ne aveva di recente presentato più d’uno dei miei libri e credo che in questa sua volontà che intervenissi qui ci fosse proprio il desiderio che io rendessi talune testimonianze, di cui vi dirò e che attengono essenzialmente agli aspetti autobiografici dell’opera. Testimonianze che oggi, in una presentazione postuma, forse acquistano rilievo maggiore.
Così, mi sono ritrovato davanti una serie di appunti, con cose sparse e dei segnalibri che ho messo dentro al libro di cui parliamo e ad altri due che ne costituiscono antecedenti: Testimone di un volo, una silloge di poesie di Enrico, edita nel 1998 e un’altra di nostro padre, Fratello alla mia pena che aveva visto la luce nel marzo del 1968, un mese prima che quella di papà si spegnesse.
Di quest’ultimo volume, col titolo molto emblematico per il futuro impegno di solidarietà di Enrico, nel marzo di due anni fa avevamo insieme portato a compimento l’idea che avevo avuto di farne una ristampa. Ed Enrico ne fu entusiasta, trattandosi di un libro che lui stesso – nella nuova prefazione – definirà il più importante della sua vita di figlio di padre di nonno di medico.
La ri-nascita di quest’opera (tale può senz’altro definirsi, in quanto giunta a cinquantacinque anni dalla primitiva edizione) credo sia stata per lui un importante aiuto a vincere il blocco emotivo che dentro di sé la morte di Elio aveva prodotto.
Perché il racconto della storia di Elio, che è anche la loro comune vicenda umana, lui ce lo aveva in animo da tempo. D’altronde, lo aveva sollecitato Elio stesso quando lo esortava: “Scrivi, devi scrivere, altrimenti queste cose finiremo per dimenticarle”. Ed Enrico, morto Elio, aveva pur cominciato a farlo, stendendone il primo capitolo sull’Amazzonia; ma poi si fermò.
Due mesi dopo, non ricordo se preannunziata o meno, ricevo da Enrico questa e-mail:
“Carissimo Bob,
Elio è morto il 29 dicembre2020. Fu per me uno schianto, aveva condiviso per oltre vent’anni la parte più bella della mia vita e poi negli ultimi tre ci eravamo perduti, per ritrovarci quando il suo calvario era già cominciato e si preparava a morire nella santità che gli era propria.
Mi misi a scrivere, mi aiutò per un po’, fin quando il dolore si fece troppo acuto e, quando avevo terminato il capitolo sugli anni dell’Amazzonia, mi fermai. Resterebbe tutta l’Africa…
Te lo mando per diversi motivi: mamma è molto presente, lui le era legatissimo; ci sono tante cose di me, il dentro che mi fa piacere tu conosca meglio, anche per essere tu un link così importante con i miei nipoti; il giudizio di uno che scrive bene come te mi occorre anche per decidere se andare avanti. Non fare sconti. Ti abbraccio”.
Non credo che compresi immediatamente l’intera portata del messaggio, ma lessi il capitolo la sera stessa e all’indomani gli risposi, per WA:
“Potente, tumultuoso questo tuo primo capitolo. Senza pause narrative e fortemente coinvolgente. È destinato a far parte di un romanzo molto importante. Non so come procederai (e senz’altro devi farlo) … Buon lavoro!!!”
Dopodiché, Enrico ritrovò la lena e il libro arrivò rapidamente a conclusione. Superata qualche iniziale incertezza, pensammo che fosse meglio autopubblicarlo, affidandolo a uno storico stampatore napoletano. Insieme, ne curammo anche la parte grafica e pure, con l’aiuto di Bianca, quella fotografica.
Risalivamo Toledo verso la tipografia della Pignasecca: lui era curvo e procedeva a fatica, provato dalla malattia che cominciava a scavargli dentro, ma era felice dell’impresa.
In seguito, l’editore Ares volle pubblicarlo e il titolo “Elio” si impreziosì della frase “Una cattedrale di carità”. Lo presentò a Milano, nel dicembre scorso e nemmeno il tempo di ritornare a Napoli, che fu subito costretto a ricoverarsi nuovamente al Sant’Anna di Caserta, dove avrebbe percorso il breve tratto finale della sua esistenza. A febbraio, il 22, ci ha lasciato.
Quante cose vi sarebbero da dire di questo libro, per lo stile e per i contenuti!
Per la maggior parte lo farà, e da par suo, Nunzio Ruggiero, di sicuro mettendo in luce, tra l’altro, quella avventura di carità che Elio ed Enrico vissero tra l’Amazzonia e l’Africa a cui poi lo stesso Nunzio si aggiunse e da cui fu coinvolto, attratto dal magnetismo delle due personalità, oltre che dal richiamo misterioso che ci fa disporre ad accogliere quel dono di Dio.
Io, perciò, tralascio ciò che sta dentro a quei viaggi verso gli scartati della terra, ovvero i grandi temi affrontati nella narrazione e direi anche i più evidenti, che attengono propriamente al carattere biografico del libro: la carità appunto, l’amicizia (con tutte le pieghe create da molta luce e qualche ombra) e la morte, naturalmente. Toccherò qui soltanto molto brevemente due aspetti, autobiografici, relativi ad Enrico (da fratello, me lo consentirete), che introducono elementi personali di lui, del suo percorso, dei suoi sentimenti più segreti. Scritti da lui, direi, con una matita sottile, ma che certo non potevano sfuggire a chi lo ha conosciuto per settant’anni.
Il tema del viaggio interiore, in primo luogo. Il cambiamento esistenziale.
Parte da Capri, in un posto il cui genius loci: l’opulenza, il consumismo, l’apparenza, l’inseguimento del fatuo è esattamente e diametralmente l’opposto di quello dell’Amazzonia e dell’Africa, fatte di miseria, assenza del necessario, disinteresse ai beni materiali se non per ciò che serve a sopravvivere, la scodella per il pasto giornaliero, la salute, che quasi sempre manca.
Erano anni importantissimi per Enrico. Nel ’95 l’incontro con Elio, nel ’98 scrive Testimone d’un volo: è lui a incominciare a volare, ma è lui anche il testimone di quel volo.
Comincia così, come dice nella prefazione del suo libro in risposta all’invito ricevuto da Elio a seguirlo: “Non significava lasciare la mia cattedra, il mio reparto, la mia sala operatoria, i miei trapianti, ma ridimensionarli e fare posto al mondo più povero”. O perlomeno, così inizialmente credeva. Perché questo posto, che si aggiunge ad altro, poi, per tante ragioni (anche pratiche: ad es. il collocamento in pensione o pure familiari) diventerà sempre più (tra virgolette) ingombrante, assumerà una centralità che prenderà il sopravvento, avendo egli fatto lo spazio con cui – come avrebbe detto Simon Weil – ci si fa vuoti, per poter accogliere l’altro.
Cosa succede ad Enrico in questo periodo. Cosa gli sta capitando, nell’incontro con la Carità?
La carità che cos’è? Qui non voglio certo fare catechismo. La carità, però, è una virtù teologale. A differenza di quelle cardinali, non la costruisce l’uomo; è un dono diretto di Dio. L’uomo l’accoglie. Ma per accoglierla deve fare spazio. E così questo dono, in lui, si presenta inizialmente piccolo, acquista uno spazio inter cetera. Poi, piano piano, s’ingrandisce. Ma da dove gli nasce questa disponibilità all’accoglienza della carità? Ha radici lontane e fortemente suggestive.
Conosco i semi di questa disponibilità all’accoglienza.
In mio padre:
Il libro a cui ho già fatto cenno, edito nel 68, di sue poesie, in cui la chiamata alla carità di Enrico è già in nuce. Sono liriche; una eponima, che dà il nome alla silloge, si chiama proprio così: Fratello alla mia pena. È Gesù nel campo del Getsemani, è l’uomo abbandonato dagli altri uomini, dai suoi simili, dai fratelli, proprio come lo sono gli ultimi della terra. E già qui vi è il seme della carità. Il seme gettato peraltro da un uomo che la carità non la scriveva solo nelle poesie ma la viveva operosamente. Fu infatti per anni il Presidente della sezione napoletana della S. Vincenzo dei Paoli.
In mia madre:
Questa visione della carità e dell’attenzione al fratello era infatti pienamente condivisa dalla nostra mamma, la quale ripeteva come un mantra, aggiungendovi anche un pizzico di pragmatismo femminile: “Bisogna pensare sempre agli altri. Finanche per egoismo, ché fa bene pure a sé stessi”.
Nel suo Maestro:
C’è un altro seme, germogliato proprio qui a Capri, dove Enrico veniva mondanamente; così come veniva anche il suo venerato Maestro il prof. Giuseppe Zannini. A qualche centinaia di metri da dove ci troviamo ora, nella sua villa di Tragara, il professore riceveva fiumi di capresi, per visitarli gratuitamente. E i capresi lo amavano molto, come lui amava Capri. Tanto da volere fare riposare qui i suoi resti mortali, in questo cimitero.
Stasera sono presenti molti residenti. Chissà se qualcuno tra voi ha mai notato che all’ingresso del cimitero, scolpita nella pietra, c’è una frase di San Pietro: “La carità copre la moltitudine del peccati”. E se sa che questa frase divenne il motto della San Vincenzo dei Paoli. Dunque, le remote premesse in Enrico per fare spazio alla carità in suo padre, sua madre e nel suo Maestro.
Ma quant’è forte – e qui sottolineo un secondo tratto autobiografico – la presenza del padre in questo libro. E della sua assenza!
Come in una sorta di circolarità affettiva, il libro si apre con l’esergo fatto di due versi di una poesia di Alfonso Gatto che s’intitola appunto al padre: “Mi basterebbe che tu fossi vivo/un uomo vivo col tuo cuore è un sogno”. E il racconto inizia, con un incipit davvero folgorante: “Alle quattro del pomeriggio Elio è seduto su di una panchina del porto e ha appoggiato la fronte sull’impugnatura del bastone proteggendola con le mani, che sono gonfie e piene di ematomi. È un uomo sfinito, forse si è addormentato. Lo guardo come si guarda un fratello amato più di un fratello di nascita”. Un fratello, dice. Io ci vedo forse un padre. Il suo padre, che non è riuscito ad invecchiare. Di cui, come resto ineliminabile, continua a farsi presente l’assenza.
E si conclude questo libro, nel capitolo intitolato “L’ospedale dell’anima” in cui vi è uno straordinario redde in se ipsum, si ritorna là dove tutto è cominciato, bambino in villeggiatura nel Sannio, a Vitulano, in una notte stellata, il Santuario abbracciato dai monti… “… mi addormentai per risvegliarmi nel cuore di una notte serena e silenziosa… fu lì che ritrovai finalmente mio padre, perché è lì, nel grande buio, che ricomincia ogni luce”. Ecco, la “Re-ligio” in senso strettamente etimologico, opportunamente evidenziata da Nunzio in postfazione. I fili si riallacciano, si ritrova il padre, ovvero l’origine.
Potrebbe sembrar strano, a chi lo ha conosciuto pure non superficialmente, che in un uomo che appariva forte, determinato, anche decisionista, talvolta autoritario, vi sia stato perennemente questo fortissimo desiderio del padre. Non solo del padre fisico, il che – resto inestinguibile – è normale in un figlio che lo perde a diciotto anni (papà, per lui matricola di medicina, fu anche il suo primo e il più doloroso caso clinico). Ma c’è pure il desiderio del padre simbolico: di una guida, di un referente soprattutto spirituale, per poter penetrare il suo sguardo sul mondo. E lui, ne sono convinto, ha cercato questa guida proprio nel momento del cambiamento, avvenuto all’incirca nel mezzo del cammino della sua vita.
La tensione, dal successo professionale e dell’affermazione sociale, alla pratica di carità, la quale entra prima in punta di piedi e poi in maniera sempre più forte nella sua esistenza, grazie anche a Elio. Sia chiaro, qui non sto parlando di un santo. Enrico era un peccatore, come lo siamo tutti noi. Un peccatore. Ma ha accolto il dono della carità. E il suo dito ha puntato sempre alla luna. Anche quando tra l’altro, oltre che nella carità operosa, compiva le sue riflessioni sui grandi – e connessi – temi esistenziali, avendo per anni presieduto il Cirb – il Centro di ricerca bioetica. Ha riflettuto seriamente, portando il suo pensoso contributo, su questioni come il fine-vita e l’accanimento terapeutico. L’ha fatto da medico, ma anche da uomo di carità.
C’è tempo per dire qualcosa di Enrico scrittore?
C’è tempo per dire come quest’uomo dai pensieri e dai sentimenti così elevati ha saputo trasfonderli in un libro, un libro solo, diventando uno scrittore, e con la esse maiuscola? Come un sol libro lo ha reso poeta. Poeta, che, come disse un raffinato intellettuale quale Michele Prisco nella prefazione di esso, “sa piegare il proprio linguaggio non soltanto secondo le esigenze proprie dell’iniziale tensione emotiva ma anche tenendo d’occhio, con grande discrezione, e costeggiando, sempre tuttavia in un ambito di assoluta personalità e originalità, certe poetiche di questi ultimi anni (Montale, Gatto)”, peraltro accostandolo proprio a uno dei suoi poeti del cuore: Alfonso Gatto, il “cantore dell’anima meridiana”; e dunque, scorgendo già nella sua poetica ciò che mi pare di poter rinvenire anche nella prosa di “Elio”, ovvero originalità ma al tempo stesso conoscenza dei modelli linguistici.
Di Enrico affermerei comunque che, come si dice nella musica, aveva un orecchio assoluto per la scrittura. Che scrivesse una conferenza scientifica, un bigliettino d’auguri o un necrologio, lo si poteva cogliere con tutta evidenza. È stato un grande lettore, questo è certo, innamorato dei libri, a partire dal rapporto tattile con loro, lo stesso che aveva nostro padre il quale, dopo aver magari corteggiato per qualche giorno un volume in libreria, dopo averlo acquistato se l’accarezzava soddisfatto. Avrei anche un aneddoto personale da raccontare, su quando visse a casa mia per circa un anno, in seguito alla sua separazione e sembrò accorgersi di nient’altro, se non dei miei libri; sicché l’unico suo commento in merito all’ospitalità, quando questa cessò, fu: “che bella interessante biblioteca hai. Ne ho goduto molto”. Non tutti i lettori però diventano scrittori. Ha mangiato, a casa, pane e letteratura, pure è certo. Ma nemmeno questo è sufficiente. Ha goduto della lezione della nostra cara prozia Emma, amata in casa come seconda mamma, da cui di sicuro nei primi anni scolastici ha attinto più di qualcosa quanto alla perfezione linguistica (mai in “Elio” una parola che non fosse la più appropriata, mai una punteggiatura discutibile!). La verità è che, pur col conforto di tutti questi strumenti, Enrico dimostra qualità di scrittura davvero fuori del comune e un dominio stilistico che si può riconoscere solamente a uno scrittore molto maturo e molto bravo.
E così, Elio. La cattedrale di carità è opera di straordinaria intensità, che attraverso la costruzione corale della memoria di un uomo eccezionale, riesce a tenere insieme il memoir personale, la cronaca di viaggio, la riflessione spirituale e il romanzo esistenziale.
Ci si avvede subito della sua potenza narrativa, basterebbe già leggere la prima pagina, questo incipit prorompente, a spalancare la porta d’un libro, che si presenta come una veglia narrativa, in cui il narratore è come se si mettesse di guardia alla vita di Elio; ma che è anche elegiaco-lirico, parla di un dolore che trattiene la voce e usa strumenti stilistici raffinati e piuttosto rari: figure retoriche come l’anafora o costruzioni sintattiche come l’ipotassi, per un’attesa che si può scandire quasi in maniera rutilante.
Il racconto, sia per ciò che è biografia sia per quanto autobiografico, non scade mai nell’agiografia. Al contrario, di Elio sottolinea i difetti, le testardaggini, le fughe improvvise. E non fa sconti nemmeno a sé stesso. Come quando riporta la frase del suo collega major Mario Santangelo (nel memoir, una sorta di Virgilio, suo duca in senso dantesco), che lo esorta a non indugiare e a rivedere Elio, con cui era scesa la freddezza: “Ma allora lo vedi che sei tu? … hai litigato con me, so anche con tuo fratello (chi vi parla: ndr), con Pennisi…”
Anche il sentimentalismo è al bando. La miseria non è mai presentata in maniera estetizzante …
Poi, questa felicissima capacità di cambiare in continuazione il registro narrativo. E non dico tanto per il ricorso alla retrospezione narrativa (il cd. flashback), quanto soprattutto per l’alternanza del registro lirico col tono brioso o finanche umoristico (esilarante l’apparizione di Elio impomatato, dopo l’assalto degli insetti), del tono diaristico e quello quasi clinico delle diagnosi. Sapendo essere altissimo in ciascuno di questi registri. La pagina, forse a mio avviso la più toccante, della morte di Victoria mi fece immediatamente pensare a quella di Cecilia nel cap. 34 de I promessi sposi. Vero che noi, in famiglia, siamo stati tutti malati di manzonismo, magari da stentarelli per carità. Fatto sta che I promessi sposi li abbiamo mangiati a pranzo e cena, visto che se ne parlava a casa in continuazione tra mamma, che ad anni alterni li insegnava al Ginnasio, e papà che amava seguirla tra tanti passaggi e citazioni manzoniane.
“Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme” dice la madre a Cecilia già morta. Mi è venuto da domandarmi se nel ripensare a Victoria, di cui certo si sentì fratello, padre forse, sopra quella barca, dalla cui pipì venne bagnato come ultimo atto d’esistenza di quella piccola creatura, e scriverne in quel tempo finale della sua esistenza, Enrico non abbia avuto lo stesso sentimento della più lirica dei personaggi manzoniani.
La morte di Elio, annunciata e attesa, rappresenta il punto in cui memoria e futuro si incontrano. E la scrittura di questo libro è il proseguimento della sua opera. E il libro adempie alla richiesta rivoltagli da Elio di scrivere la loro vicenda; è atto di fedeltà: custodire, testimoniare, tramandare.
Questa è la parte più importante della vita di Enrico. Questo è “il dentro”, quel che è più nascosto in lui, che dice a me di aver piacere che io conosca meglio.
Concludo.
La cattedrale di carità di Elio, e diciamo pure di Enrico, è il potente simbolo di una edificazione resa possibile dall’impegno corale, ed è nel collettivo che vive il suo sentimento, e che sopravvive anche quando i costruttori sono andati via.
Tra le altre cose, vi sopravvive la loro associazione, oggi rinominata Konou Konou di Enrico Di Salvo: possiamo fare qualcosa anche noi!
Grazie.

Solo tu, caro Roberto, con la tua sensibilità arricchita dal filo rosso della “fratellanza” potevi esprimere sensazioni così vive e palpitanti come quelle descritte nel tuo intervento…
Sei una persona speciale!
Sono orgogliosa di aver ritrovato l’amico “antico”
A parte i complimenti esagerati, sono felice anch’io di aver ripreso – e lietamente con la “complicità” della scrittura – la nostra amicizia familiare e personale.
A risentirci e a rileggerci presto.
Un abbraccio
Carissimo Roberto, non essendo riuscito purtroppo ad essere presente, avevo pensato di chiederti il commento che avevi fatto….e ti ringrazio perciò per l’idea di pubblicarlo. Inutile dirti che hai superato te stesso, scrivendo in maniera splendida del Tuo eccezionale Fratello, che mi permetto di sentire anche mio. Ti abbraccio forte.
Carissimo Roberto(ne),
con te, oltre che con Enrico, s’intrecciano fili che sono tratti da una visione comune e fortunatamente altruistica dell’esistenza. L’unica che, a nostro comune avviso, dia alla vita il senso pieno di essere vissuta.
Un abbraccio anche a te