Presentazione de LA VIA DI CASA

di Alvaro Lukacs (Museo della Moda 12.12.24)

P

Prima di dirvi quello che davvero penso di questo libro, devo farvi una premessa.

Ero al Caesar Augustus di Anacapri per la presentazione dell’ultimo bel libro di Alfredo Guarino e toccava a me dire qualcosa. Non essendo né un letterato né uno scrittore famoso, avevo incominciato l’intervento chiedendomi che cosa ci facessi io lì da quella parte del tavolo.  Per fortuna nessuno dei presenti mi ha risposto a tono. Qualcuno però mi guardava come a dire che se oggi si scrivono tanti libri allora ci si deve accontentare, per la presentazione, di quello che passa il convento.

E così ora in questo ex-convento dove si parla ancora di libri ed io, nel frattempo, non sono diventato uno scrittore famoso, mi viene di farmi la stessa domanda che ci faccio io da questa parte del tavolo.

Stavolta però la risposta c’è, ed è pure documentata.

Con un gruppo di amici ci si era dati convegno per parlare con Roberto di questo libro ed io, da lettore appassionato e scrittore appassito quale sono, gli avevo espresso il mio pensiero.

Il giorno dopo Roberto mi manda su whatsapp il seguente messaggio: “Caro Alvaro, pensando alle tue censure, ho capito che ho bisogno di te. Dunque, perché non presenti insieme ad Annella Prisco la Via di Casa che già conosci, il 12 dicembre al Museo della Moda?

Così eccomi qua.

Ora un’altra premessa, l’ultima vi giuro.

Nella presentazione di un libro ci sono due interessi differenti, quello del presentato (Roberto) e quello del presentante (io); il primo vuole che se ne parli, il secondo vuole solo far vedere come è bravo a presentare. E dunque se serve allo scopo va bene anche criticarlo, meglio se distruggerlo perché la gente è più attratta dal sangue che dalle buone azioni. Io ho disperatamente cercato difetti in questo libro, ma non li ho trovati, dunque sono costretto, a rischio di annoiarvi, a parlarne solo bene,  e se possibile ancora meglio di come ve ne potrebbe parlare l’Autore che quanto a vanità anche lui ha il suo bel daffare a controllarla.

Veniamo al dunque.

Anche questo, come ogni buon libro, solleva nel lettore alcune curiosità.  Una in particolare non riesco a tenermela: La via di casa, per Roberto, è la via di cosa? Cosa cerca con i suoi racconti familiari brevissimi ma intensi, accorati ma ironici, arguti ma ingenui, seri ma divertenti ecc.? E resi, poi, così bene da uno stile personale, unico, mai banale?

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Scorrendo distrattamente le pagine, mi era parso che il libro fosse il resoconto di un viaggio letterario di Roberto tra i ricordi di famiglia. E dunque un dialogo esclusivo tra lui e le sue radici affettive. Esclusivo e perciò potenzialmente escludente.

Quando poi ho incominciato a leggere, è stato come se la prospettiva dell’Autore fosse mutata. O forse era la mia che stava mutando.

Ho visto una scrittura che lentamente, fra i ricordi dell’Autore, incominciava ad includere anche quelli della mia infanzia, dei miei genitori, di miei fratelli ecc. E da lì allargarsi ai ricordi di tante altre persone. Più che una biografia, la penna di Roberto stava raccontando una geografia di sentimenti familiari comuni a dei lettori sconosciuti ma ben individuati in quella parte della borghesia che ancora si riconosce nel bisogno di circondarsi di buone letture.

Dunque non sono affatto sorpreso di vedervi oggi qui in tanti a sentir parlare di questo bellissimo libro.

Già il titolo, infatti, è musica per le orecchie. Incominciamo allora da quello, un titolo che suona proprio bene: La via di casa parole e musica di Roberto di Salvo.

Perché vedete, ogni libro ha una musica di sottofondo che merita cercare. Qui il tema è quello della nostalgia ma il sottofondo non poteva essere dato, chessò, dalla viola struggente  di Ennio Morricone all’inizio di Nuovo Cinema Paradiso (anche quello incentrato sulla memoria dell’infanzia). Troppo malinconica per la narrazione vivace e piena d’ironia con cui Roberto ci preserva dalla tristezza.

E credetemi, parlare della nostalgia senza il rimpianto di non averci pianto abbastanza, non era né facile né scontato.

Così come non è facile per me dirvi la colonna sonora di questo libro (le canzoni che abbiamo appena sentito individuano l’epoca della narrazione ma non lo stile).   Ora, la canzone che mi passa per la testa non so bene cosa sia come e quando l’ho sentita, di sicuro so soltanto che è come un antico saltarello, o una cosa tra un minuetto e una quadriglia, o anche una ballata, ecco, sì una ballata che una volta era la canzone narrativa per eccellenza.

Tecnicamente, La via di casa è il primo approccio di Roberto alla forma-romanzo che realizza con l’espediente di assegnare a sé ed ai suoi congiunti   nomi di fantasia che potrebbero essere anche quelli dei nostri familiari.

E così fa di ogni lettore un ospite di quella casa che perciò diventa una casa-famiglia in cui si viene accolti senza cerimonie perché la schiettezza del racconto ed il suo registro leggero disinnesca il pericolo di sacralizzare i riti familiari di una volta e di chiuderne i celebranti in una teca di cristallo.

Ho immaginato che le case familiari che Roberto descrive nel libro siano fatte di tante piccole stanze quanti sono i racconti che lo compongono.  E così, ad esempio, la casa di via Battistello Caracciolo numero zero (ma il civico l’ho aggiunto io) non è più soltanto l’indirizzo di Roberto bambino (per intenderci: quella casa molto carina senza soffitto senza cucina …  eccetera) ma anche il luogo metafisico dove lui chiama a raccolta i protagonisti veri o inventati delle nostre comuni nostalgie per quell’età dell’oro.

E se quella casa è anche così spaziosa da accogliere i bambini che tutti siamo stati é  perché nella memoria di Roberto c’è lo spazio anche per i nostri personali ricordi d’infanzia. Perché, in definitiva, noi esistiamo anche nella memoria degli altri.

La via di casa insomma è anche la via di un nuovo dialogo di Roberto con i lettori.

I quali sino a quel momento, per il libro che aveva prima pubblicato sul calcio, erano (ahimè) soprattutto i tifosi del Napoli.  Una fauna rumorosa che lui era riuscito a far ammutolire con una prosa elegante che li aveva lasciati senza parole  perché molti di loro  non  avevano proprio capito le sue .

Ma ora grazie alla modalità inclusiva di questi racconti siamo in tanti a godere del suo libro ed  a tifare per lui nella gara con sé stesso in cui ha deciso di alzare non di  poco  l’asticella.

Come sia riuscito nell’ impresa di saltare indietro nel tempo senza farsi male lo sanno bene quelli che hanno già letto il libro. Chi invece ancora non l’ha fatto, troverà ora alcune delle ragioni per cui rinunciare a leggerlo sarebbe come perdere  l’occasione per volersi un po’ più di bene.

Ognuno può leggere un libro come vuole.

Quello che a me è parso emergere tra le pagine di Roberto è anche un’esortazione affettuosa a chiederci se pure noi possiamo trovare una via di casa. Se il filo della nostra rimembranza possa farci recuperare l’autenticità che abbiamo incominciato a perdere con la fine dell’infanzia.

E sarebbe già un inizio   ripensare a come eravamo in relazione alle cose semplici, ai luoghi veri  ed alle persone care che Roberto descrive, ed a come siamo diventati in relazione alle non-cose, ai non-luoghi e forse anche alle non- persone in cui ci capita di imbatterci.

Insomma, a meditarci sopra anche noi, in quel procedere solitario che la foto di Roberto in copertina sembra suggerire. E forse l’idea del libro nasce proprio in quella spiaggia deserta, con i ricordi che affiorano tra le orme dei passi perduti che altri hanno lasciato sulla battigia e su cui Roberto sembra calcare  le sue prima che le onde le cancellino.

Sicchè non è esagerato vedere quest’ultima fatica di Roberto collegata alla tradizione letteraria romantica in cui, da lettori, abbiamo tutti forgiato la consapevolezza delle nostre emozioni. E ritrovarvi le parole con cui Dostoewskij terminava quella cattedrale letteraria che ancora sono I Fratelli Karamazov. Laddove dice che   Non c’è nulla di più nobile, di più forte, di più sano ed utile nella vita, di un bel ricordo e soprattutto di un ricordo d’infanzia e della casa dove siete nati…. E raccoglierne un bel po’ di questi ricordi…, ci salva la vita.

Certamente Roberto, lettore prima che scrittore, sapeva quelle parole; ma non poteva sapere che il suo ri-cordo, nel significato di “riportare al cuore”, avrebbe portato molti altri cuori a ripescare proprio nei ricordi   gli argomenti migliori per vincere la smemoratezza che affligge i nostri giorni sempre più affacciati sul presente e sul futuro.

La Via di Casa, allora,  potrebbe essere l’occasione per  alzare ogni tanto   lo sguardo   dalla pagina ed   abbandonarsi al ricordo  di un’ infanzia fiduciosa ed innocente e di una Casa che  come quella lì, proprio come quella lì,  non ne abbiamo più avute.

Sicuramente Roberto non è Dostoevskij ed i suoi ricordi non ci salvano la vita, ma forse ce la faranno più bella almeno per le ore che vorremo dedicare alla sua scrittura.

Ha detto Brodskij, Nobel 1987 per la letteratura, che il ruolo dell’intellettuale è scrivere cose belle. E siccome la Via di casa è una di quelle cose belle, ci sto pensando se includere anche Roberto tra i miei intellettuali di riferimento, sempre che lo voglia, naturalmente. Magari, ecco, ci scambiamo il favore.

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Qualcosa ora va detto riguardo alla scrittura del libro perché se anche la tematica familiare non toccasse le vostre corde perché siete semplicemente dei mostri, la sua modalità espressiva vale da sola a vincere ogni vostra difesa.

Roberto disegna un’architettura di finestre narrative che si incastrano una dopo l’altra (spesso una dentro l’altra) e che danno quella visibilità scenica che Calvino raccomandava nelle sue Lezioni Americane.

 Ne parliamo ora perché il suo procedere frastagliatissimo tra discorsi che diventano percorsi, tra   l’ironico e l’iconico, tra consuetudini e similitudini, tra parentesi e parenti (le une e gli altri profusi davvero con grande generosità) vale a spanne il 50% del prezzo di copertina.

Dunque un impegno che può essere affrontato da tutti quelli che hanno almeno il diploma (quello sì, ci vuole proprio) .

La scrittura di Roberto, infatti, non è “scorrevole” come l’acqua che scivola sulla pietra e non lascia sedimenti.  Se mi passate il termine, è un periodare discorrevole come la parola raccontata con arguta raffinatezza nei salotti letterari del diciottesimo secolo.  È una scorribanda libera nei mezzi e rigorosa col fine proposto. Roberto, infatti, si regala il piacere provocatorio dell’uso di forme lessicali desuete un po’ come Gadda e Camilleri hanno fatto con la versione anarchica dei loro rispettivi vernacoli e come Arbasino fece a dispetto delle casalinghe di Voghera, la sua città. Come tale, è una scrittura gelosa, gelosissima dell’attenzione del lettore a cui non concede distrazioni ma che aiuta con l’alternare racconti brevi e definiti, ordinati secondo il caos di un tempo che si riavvolge di continuo.

E che pagina dopo pagina, ti conquistano ad un sentimento di benevolenza per il passato come un vino che un sorso dopo l’altro ti alleggerisce in una botta sola del presente e del futuro.

Così Roberto un poco ti ubriaca e un poco ti fa ammalare perché la sua penna è anche un virus contagioso che non passa in tre giorni: infatti non abbandona a sé stessa la personalità letteraria del lettore (ognuno ne ha una, anche se non se ne accorge), ma la coltiva e la sollecita a rivelarsi almeno nella forma platonica del desiderio di poter scrivere anche lui i suoi ricordi.

In questo senso è la scrittura seduttiva   dell’Autore preterintenzionale, cioè dello scrittore che in corso d’opera muta l’intenzione originaria di parlare solo a qualcuno per rivolgersi anche ad altri. Fortunatamente per noi, Roberto è andato oltre l’intenzione – espressa nella sua postfazione – di rivolgersi soprattutto a nipoti e pronipoti, per andare anche a sedurre (se-ducere, ricondurre a sé) una geografia di lettori ben più estesa. Se fino a lambire Voghera e dintorni leghisti però non lo credo perché serve sempre quel diploma per gustare a fondo questo libro.

Infatti ogni racconto è come un frutto succoso avvolto in una serie raffinata di annotazioni incidentali che si devono sbucciare senza l’ansia di arrivare subito al nòcciolo della questione. E quando poi siete arrivati al punto dopo lo slalom tra le virgole, vi sembra di aver vinto una gara con la vostra pigrizia.  E così vi mette di fronte al fatto compiuto del suo stile che all’inizio così è anche se non vi pare, ma poi vi persuade a tal punto che vi sentite una cacca per non essere stati una volta sola d’accordo con una scelta semantica o di mera punteggiatura. Ed allora eccovi lì a godere come ricci della sua scrittura per concedervi il piacere di licenze letterarie che danno gusto al racconto. E non mancano poi le citazioni colte, velate o nascoste, che vi gratificano del fatto di averle sapute rintracciate a volte, altre volte del dubbio di non ricordarle o che lui se le sia proprio inventate. Così’ facendo, anzi scrivendo, giuoca con la vostra intelligenza e v’incolla alla   pagina.

Roberto deve essere stato un bambino studioso e giocherellone. E come allora giocava con le cose che trovava o s’inventava, oggi gioca con le parole; non da giocatore che si diverte solo lui ma da giocoliere che stupisce con l’estetica del gesto e la sorpresa.

Scrittore persuasivo si diceva.

 La parola che Roberto usa, da buon avvocato, è convincente sia quando la sceglie piena di significato, che quando, intenzionalmente, la porge al lettore  perplessa come quella descritta da Pirandello in Uno Nessuno e Centomila. Quella parola suscettibile di essere integrata del significato che più aggrada l’interlocutore e che ne ridefinisce quindi l’intesa.

Anche per questo verso, dunque, si realizza l’empatia con il lettore, cioè il suo coinvolgimento nel racconto e con esso il destino di ogni buon libro di diventare Casa non più del solo Autore ma anche di tutti i suoi lettori.

E personalmente credo che siamo già in tanti ad aver messo idealmente la nostra firma in calce alle pagine di Roberto.

Oggi in cui si scrivono sempre più libri con l’intelligenza artificiale, quella autentica di Roberto  non ci serve per andare per la seconda volta sulla luna, ma per ritornare da lì sulla terra a rivedere i luoghi  che  abbiamo abitato per così poco tempo e dove abbiamo iniziato la strada della crescita sentimentale. Un viaggio senza algoritmi che sollecita il lettore a riscoprirsi e che a volte lo rampogna per quello in cui si è lentamente trasformato per difendersi dalla vita.

E qui dovrei citarvi un capitolo, il più intenso, dove la penna di Roberto si fa mesta e ce lo riconsegna fragile e dolente. Ma proprio per questo me lo conservo nel cuore. Non so, magari ne parliamo un’altra volta.

Un’ultima raccomandazione riguardo alla postura che merita questo libro. Non portarlo dal dentista o sulla metro, in villa comunale e nemmeno al mare. Leggilo a casa. Trova un po’ di tempo ogni volta e fattene dono . Scegli la stanza piu’ silenziosa. Chiudi la porta.

…  Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto.….

Vorrei dirvele tutte le   parole di Calvino in apertura di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” ma riempiono due pagine e si è fatto tardi.  Ma se non a me, credete almeno  a lui, perché  è solo così che ci si prepara alla magia d’una bella lettura.

Fatelo anche voi con La via di casa e poi, se vi va, mi dite pure come è andata.

Anzi no, ditelo direttamente a Roberto, che non vede l’ora.

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