Quando compii quattordici anni, avviai in famiglia la mia crociata perché mi venisse comprato il motorino o, come allora pure si diceva, il ciclomotore. Un Ciao, mi sarei accontentato di quello.
Ma mia madre, resa fragile per aver perduto il marito, il nostro papà, da poco più di un anno, aveva molto chiaro in mente che non avrebbe sopportato anche le ansie dovute al mio andarmene in giro sulle due ruote; ma, altrettanto si rendeva conto che non si sentiva la forza di opporsi alla mia richiesta, con l’energia che si profilava necessaria, sicché affidò al secondogenito questo compito e si giunse a un lodo familiare: niente motorino, ma l’auto che mi sarebbe stata acquistata a diciotto anni.
C’era stata, ed aveva funzionato, la rete famigliare. E aveva funzionato bene, per due motivi: perché il motorino veniva avvertito, responsabilmente, come un pericolo per me che lo chiedevo e per l’intera famiglia, già provata a sufficienza ed impegnata a rimboccarsi le mani per raggiungere obiettivi che richiedevano un supplemento di sacrificio dopo la scomparsa del padre. E –secondo motivo – perché era presente nel Dna di casa una modalità educativa: l’esempio (proprio quello sottolineato dalla Parsi). Ciò che mi diede il mio interlocutore nella questione, mio fratello, che seppur solo ventenne mi parlò, al posto del padre che aveva lasciato questo mondo, potendolo fare con l’autorevolezza che gli derivava dai suoi comportamenti e dall’essersi a suo tempo sottomesso alla volontà dei genitori. Che lui il motorino l’aveva avuto mai e nemmeno chiesto, conoscendo la contrarietà a concederlo da parte dei genitori.
Se dopo più di cinquant’anni da quella proibizione sono ancora qui, forse lo devo a mia madre e a mio fratello Enrico.
Motorino e smartphone hanno molto in comune, mutatis mutandis, a partire da come un genitore deve sapersi comportare al riguardo.
Che le mamme sappiano procurarsi oggi la gratitudine dei loro figli, anche se nel domani non dovessero poi riscuoterla, accogliendo l’idea che i figli sono piante di cui per lo più noi dobbiamo piantare i semi, senza pretesa di vederle crescere. Comprendano però di doversela conquistare quella gratitudine, anche con qualche no.
Il ricordo nasce da una conversazione al Museo della Moda, con la psicologa e scrittrice Maria Rita Parsi e il Governatore Vincenzo De Luca, sul tema: “Smartphone sì o no agli adolescenti”.
La bella conversazione tenutasi ieri, al Museo della Moda, sotto l’egida della presidente avv. Maria D’Elia, ha visto nel parterre due interventori d’eccezione: la psicologa e scrittrice Maria Rita Parsi e il Governatore Vincenzo De Luca, introdotti da una brillante presentazione d’ampio respiro di Melania D’Elia; ed ha preso spunto da temi di scottante attualità, come quello dell’uso degli smartphone, da parte degli adolescenti e dell’opportunità o meno di vietare o limitarne l’uso: piccola punta emersa di un gigantesco iceberg, che sotto la superficie contiene grandi temi e sfide prossime molto impegnative, come quella che da ultimo si profila con l’intelligenza artificiale.
Maria Rita Parsi ha concentrato il suo arioso intervento, sostenuta da un facondo eloquio, che nasce dalla chiarezza del pensiero (rem tene, verba sequentur), sul principio di autorità e il suo imprescindibile fondamento educativo che è (non ve n’è altro possibile) l’autorevolezza, nonché sulla materia di cui quest’ultima è fatta, ovvero l’esempio dato da genitori ed educatori ai giovani. Esempio che genitori, se incollati al cellulare per ore al giorno, di certo non sanno dare ai propri figli a cui dovrebbero limitarne l’impiego.
Ma la Parsi sa ampliare il suo discorso a un tema più ampio del “smartphone sì o no agli adolescenti”, che si colloca al crocevia in cui si incontrano (e scontrano) tecnologia digitale avanzata, business commerciale di proporzioni gigantesche, controllo della comunicazione e dell’informazione e, tutt’altro che da ultimo, (in)capacità degli educatori di gestire un fenomeno per fronteggiare il quale, anche per motivi generazionali, essi sono molto scarsamente attrezzati.
Vincenzo De Luca parla non tanto da politico (salvo che con la chiusura del suo intervento, un po’ elettoralistica) quanto da uomo di cultura: qualità che gli va riconosciuta insieme a intelligenza e lucidità, proponendo considerazioni profonde e stimolanti.
Mi ha colpito, in particolar modo, il richiamo a generazioni che non dialogano più, per differenze di linguaggi, ma non nel senso per cui il dialogo intergenerazionale è sempre complicato, in ogni tempo, ma proprio in quello semiologico e semantico, visto che, a motivo del diverso linguaggio vanno ad instaurarsi comunicazioni asimmetriche tra genitori e figli, tra educatori e studenti. Una differenza a cui non è certo estraneo l’apporto tecnologico. E lo spartiacque dei cinquant’anni, prima dei quali i giovani sono calati dentro non solo agli strumenti della tecnologia ma anche al modo in cui essi parlano, e dopo i quali, i cinquanta (direi: o poco più), si rischia l’alienazione da quella parte di mondo che chiede spid, pin, password…
Nel dibattito che segue, ho ascoltato giovani e belle mamme, consapevoli del problema, ma forse anche troppo spaesate verso una soluzione che sperano piova dall’alto, chiedendo addirittura al Governatore, deus ex machina, interventi normativi.
